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Castello, o Castéddu e’ susu, la città dorata baciata dal sole.

Conosco una città
che ogni giorno s’empie di sole
e tutto è rapito in quel momento.”
L
a città è Alessandria d’Egitto, dove Giuseppe Ungaretti nacque, ma la descrizione ci fa pensare a Cagliari, e  siamo convinti che lo penserebbe anche lui. Questa città infatti, è un po’ Africa, per i colori, per il caldo, e in passato (grazie a Dio) per la polvere delle sue strade. Ciò che si coglie al primo sguardo e lo svettare delle mura della città alta, delle torri e delle cupole. È il quartiere di Castello. Se superiamo la Porta di S’Avanzada (che evoca nell’immaginario un esercito di nemici che “avanzavano verso di essa”) e, quella delle Seziate, dove comodamente seziusu” – seduti, stavano i Vicerè a decidere le sorti dei detenuti imprigionati nelle torri, entriamo in Piazza Indipendenza. È bello che ogni toponimo, coniato nel passato, racchiuda una storia anche se spesso infelice. Da qui è impossibile perdersi, le vie di Castello ti portano in discesa sempre verso il mare, che riempie la vista di azzurro e l’olfatto di salsedine. A testimonianza dell’importanza di questo quartiere storico, sta il fatto che fino ai primi del ‘900 Cagliari era chiamata Casteddu Mannu (Castello Grande), ma anche Casteddu e’susu (Castello di sopra). Ci si può accedere da una delle tante porte che un tempo venivano chiuse ai locali, al tramonto, per concedere il silenzio ai nobili che lo abitavano. Una lei leggia”, una brutta legge. Capita ancora di sentire tra gli abitanti di Cagliari il detto “m’anti bogau a son’e corru” (mi hanno mandato via a suon di corno) e, infatti, durante la dominazione da parte degli spagnoli (cussos dimonios – quei diavoli) al tramonto si avvertiva la popolazione dell’imminente chiusura delle porte del Castello con il suono di un corno. Da allora molti utilizzano ancora quel detto che ha più di 500 anni, per descrivere la situazione, alquanto imbarazzante, di chi viene mandato via in malo modo. Chi veniva trovato dentro le mura veniva inesorabilmente gettato dal Bastione di Santa Croce. Fu così la fine di molti sardi, e pare che, una volta raggiunto il suolo, si pronunciasse la formula “stampax”, deformazione del latino stas in pax e quindi “stai in pace”. Non è da escludere che questa locuzione abbia dato il nome al quartiere limitrofo di Stampace… in sardo Stampaxi.

In passato il quartiere era molto più vitale. Oggi si anima soprattutto nelle sere estive, nelle terrazze dei locali all’aperto, e lungo le vie strette dove come in ogni Castello che si rispetti, svolazzano indisturbati fantasmi noti e meno noti, talora nobili, talora popolani. La vita di un tempo, fatta delle grida de “is piccioccheddusu”, i bambini, delle serenate cantate a squarciagola dai bastioni e deis nomìngius”, nomignoli, (… alcuni irripetibili) urlati per la strada, fanno parte di un passato che viene narrato ancora da pochi anziani nelle oreficerie storiche e nei negozi di pizzi e bottoni dei quartieri sottostanti. Ma il fascino è ancora lì, e lo si avverte in ogni via, Stretta, Lamarmora o Genovesi, dove si realizzarono la storia e l’indipendenza del popolo sardo.

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